Le barchette a remi si allontanano nella luce rosa del tramonto, sotto al ponte di teak più lungo del mondo, pieno zeppo di gente. Mandalay ha una suggestione antica, magica, un grande potere evocativo, che si sente ancora di più in una giornata particolare di festa.
Sarà perché è stata la città reale del Myanmar, Birmania, sarà perché è una meta di pellegrinaggi con oltre 700
templi dorati, sarà perché lo scrittore Rudyard Kipling l’ha immortalata per sempre in un suo poema del 1890.
Da allora basta nominare On the road to Mandalay e subito si invocano quelle atmosfere, sottolineate da un omaggio
di Frank Sinatra in una canzone ispirata al poema o più recentemente di un altro brano firmato da Robbie Williams.
Di certo la strada che porta a Mandalay è giù un incanto a sé stante, soprattutto se si arriva via fiume: l’Irrawaddy è una grande via di comunicazione, benefica di vita e quotidianità, con i pescatori, i villaggi lungo le rive, i bambini che fanno il bagno, le donne che lavano i panni, i banchi di sabbia, le mucche sulle sponde,
persino i rari delfini di acqua dolce, le imbarcazioni da crociera che spostano i visitatori da una parte all’altra, da una città, come Bagan, a un’altra.
Come a Mandalay, città d’acqua, templi e oro. Un angolo del Myanmar che sembra incantato, con le emozioni che si susseguono senza sosta. L’aspetto più sognante e evocativo emerge inevitabilmente, ma è più prepotente
quando si ha il cuore e l’anima del viaggiatore, di chi vuole gustarsi ogni momento senza le piccolezze umane di chi lo circonda.
Se poi si è ha la fortuna di capitare durante le feste birmane, in particolare la celebrazione della luna piena di ottobre, quando finisce la stagione delle piogge e la gente accende luci e lumini nei templi e nelle pagode, la suggestione è ancora maggiore.
Come al ponte, simbolo stesso di Mandalay, anche se è ad Amarapura, ex capitale del Myanmar, oggi praticamente
sobborgo a una decina di chilometri dal centro. Costruito di duemila anni fa, tutto in prezioso teak, con pali di recupero da un palazzo dell’amministrazione in disuso, U-Bein è una tappa obbligata: con le feste è un brulicare di persone, che sembrano stare a stento sul ponte dotato di 1086 pilastri, affacciato sull’acqua.
Durante altre occasioni, attraversarlo è una splendida passeggiata che collega le due rive opposte del lago Taungthaman, con vista sui campi coltivati e tra bancarelle di pesci arrostiti, souvenir e il meraviglioso artigianato in legno locale.
Lo stesso che arricchisce a Mandalay lo splendido Shwe Nandaw Kyaung, anch’esso tutto in teak. E’ ciò che rimane dell’ottocentesco Golden Palace, l’appartamento reale, qui c’era la camera da letto dove il re Mindon morì nel 1878, il suo successore, il figlio re Thibaw, per scaramanzia fece spostare l’intero palazzo e lo trasformò in un monastero.
Se l’interno è un tripudio d’oro, sono le rifiniture esterne a lasciare a bocca aperta: ogni intaglio, ogni decoro,
ogni piccolo segno, è un capolavoro di qualche sconosciuto artigiano. Sontuoso eppure sobrio, grazie al legno pregevole, faceva parte dell’ex città reale, circondata da un fossato e da mura, creata su una collina nel
nel 1857. Quello che resta, dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, sono una quarantina di edifici in legno con i tetti ricoperti di filigrana d’oro.
Ancora oro nella pagoda Kuthodaw, dove i fedeli maschi possono attaccare come voti sottili fogli dorati sulla sacra statua di Buddha, mentre le donne pregano sui tappeti fuori le cappelle. Ma non è disuguaglianza, anzi la pagoda vive sempre un’atmosfera di festa, con i grandi fiori di loto disposti sui secchi all’entrata per essere usati come offerta, le signore che vendono cavallette fritte, durian, frutto del pane e pomelo sbucciati, frittelle di ceci e altre leccornie locali, i gatti e i cagnolini che giocano nei cortili e tra le sculture.
Lungo tutto il perimetro della pagoda piccoli santuari bianchi racchiudono il libro più grande del mondo: 729 lastre di marmo con incise ben 1122750 parole dei Tripitaka, le scritture sacre buddiste.
A Mandalay sono piene di gente anche la vicina Setkyathiha Paya, famosa per la colossale statua di bronzo di un Buddha seduto, la Shwekyimynt Paya, fondata nel 1167, e la Mahamuni Paya, che ospita una scultura di Buddha venerata in tutto il Paese, rivestita interamente d’oro, tranne il volto: ogni mattina all’alba quattro monaci lucidano il viso, quasi a dare il risveglio e, dicono i birmani, a lavargli i denti al Buddha vivente.
Per ammirare meglio Mandalay, l’ideale è affrontare la lunga scalinata verso la Mandalay Hill, dominata da varie pagode e stupa. Qui il luogo sacro sembra meno sontuoso, più vissuto, con i gatti che si infilano sulle travi del tetto di legno, i cani che dormono nelle nicchie, le signore che vendono la frutta e i fedeli che leggono, pregano o si rilassano ammirando lo splendore della città dall’alto. Giù il fiume Irrawaddy è una striscia fangosa con tante barche che vagano.
Bisogna prendere una di quelle imbarcazioni per ammirare un’altra meta incantata nei dintorni di Mandalay: il villaggio di Mingun. Si scende sulla sponda, tra venditrici e bancarelle di cibo, e dopo una piccola salita si trova un grosso masso con qualche intaglio: è un elefante seduto, messo a guardia di quello che doveva essere un tempio gigantesco di oltre 50 metri, voluto da il re e Bodawpaya nel 1790 e rimasto incompiuto
intenzionalmente.
Iniziato a costruire dagli schiavi e prigionieri di guerra e con gli esosi tributi imposti al popolo, era mal visto al punto che fu inventata una profezia: se il progetto fosse finito il re sarebbe deceduto e il Paese sparito, così per evitare che la leggenda si trasformasse in realtà l’edificazione fu rallentata finché il sovrano morì e fu tutto definitivamente sospeso.
Si può salire sul Mingun Pahtodawgyi, anche se sembra abbastanza instabile, meglio proseguire lungo la strada, sempre con gli stand di artigianato in legno e stoffe, prodotti per cui Mandalay, insieme alle foglie d’oro e alla giada, è famosa, e arrivare alla Mingun Bell. E’ la seconda campana più grande al mondo, di ben 90 tonnellate, custodita in uno stupa bianco e sempre voluta del re megalomane.
Poco oltre la pagoda di Hsinbyume o Myatheindan, con uno stile architettonico particolare, è un’abbagliante biancore, un intricato labirinto di intagli e decori che nasconde una storia romantica: fu dedicata dal re Bagyidaw nel 1816 alla memoria della prima consorte e cugina, la principessa Hsinbyume, chiamata anche la principessa White Elephant, morta di parto in questa zona.
Una volta ripresa l’imbarcazione e rientrati a Mandalay, ammirando un tramonto dai colori accesi sul fiume, si può continuare ad esplorare l’onnipresente lato spirituale della città con il vicino monastero Mahagandayon, voluto da una coppia di ricchi benefattori nell’Ottocento e oggi sede di 1500 monaci, soprattutto ragazzi e giovani che vengono qui a studiare e novizi. All’ora di pranzo, venire a vedere la lunga fila di monaci con la ciotola che sfila per le vie interne, in silenzio e in contemplazione, per andare nel refettorio a mangiare, è una delle esperienze più mistiche da fare a Mandalay, città di templi d’oro, acqua e suggestione.
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Foto di Sonia Anselmo e Fiorella Corini