A world apart – L’ambientazione scelta è il Sudafrica in regime apartheid, ma questa volta il punto di vista è quello di una tredicenne bianca che rimprovera ai genitori, giornalisti politicamente impegnati nella lotta contro la segregazione, di dedicarle poche attenzioni rispetto all’impegno profuso per occuparsi delle lotte civili dei neri africani. Una storia privata, dai toni drammatici molto forti, che si inserisce in una grande questione politica e sociale. La fotografia magistralmente si adatta all’intonazione drammatica della regia; il film, basato sulla sceneggiatura autobiografica di Shawn Slovo, ha vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes del 1988.
Un’arida stagione bianca (A dry white season) – Nel Sudafrica in pieno apartheid il professor Benjamin Du Toit (Donald Sutherland) indaga sulla morte del giovane figlio del suo giardinere avvenuta durante una manifestazione in cui la polizia ha sparato contro la folla. Poco alla volta comincia a rendersi conto della crudeltà dei metodi della polizia locale, ossessionati dalla possibilità di una ribellione da parte del popolo sottomesso. Una giovane Susan Sarandon interpreta Melanie, giornalista inglese che vuole rendere pubbliche a livello internazionale le atrocità compiute dalla polizia locale. Du Toit pagherà con la vita la sua battaglia per i diritti umani, ma il suo sacrificio non sarà stato vano. L’avvocato McKenzie è interpretato dal brillante Marlon Brando.
La forza del singolo (The power of one) – Sudafrica anni Trenta. Pk, un ragazzino di sette anni, di origine inglese e rimasto orfano di padre, viene mandato in un collegio di afrikaner. Bianchi e razzisti, questi lo disprezzano per colpa di un ricordo del colonialismo britannico. Alla morte della madre Pk torna a casa e viene affidato alle cure di un amico del nonno, Doc, un anziano professore tedesco. Durante la Seconda guerra mondiale Doc viene arrestato, ma gli è permesso di incontrare Pk. In queste occasioni il ragazzo conosce un carcerato nero, Geel Piet, un Morgan Freeman istruttore di boxe che gli insegna a diventare pugile. Passano gli anni, Pk diventa un bravo boxeur e si innamora, ricambiato, di Maria Elisabeth Marais, figlia di un professore che sostiene l’apartheid. Durante un violento scontro Maria viene uccisa, Pk decide quindi di seguire la propria coscienza e di partire per Pretoria, dove si dedica all’integrazione fra i popoli sudafricani.
Duma – È una di quelle storie dai valori sicuri, sui quali ognuno di noi dovrebbe riflettere: amicizia, rispetto per gli altri, siano questi umani o animali, e rapporto uomo-ambiente. Il piccolo Xan e il padre trovano un cucciolo di ghepardo abbandonato e decidono di portarlo nella loro fattoria per farlo crescere. Alla morte del padre, Xan sceglie di lasciare libero al suo destino l’animale e di riportarlo nel luogo del loro primo incontro. Una dura separazione quella tra Xan e la gheparda Duma, ma che si rende inevitabile per permettere al felino di seguire la sua natura; per il giovane protagonista sarà una grande avventura che lo fará crescere. Una bella amicizia fra uomo e animale che non passa mai di moda.
The interpreter – Qui Sidney Pollack si traveste nell’Hitchcock versione “Uomo che sapeva troppo”, cimentandosi in un thriller politico con un’algida Nicole Kidman nei panni della protagonista Silvia Broome. Questa, interprete per le Nazioni Unite, ascolta una conversazione, in un idioma che solo pochi conoscono, il cui argomento è l’uccisione di un leader africano. Denunciato il fatto, le viene affiancato un agente dell’Fbi, un irresistibilmente ottimo Sean Penn. Per nulla banale la soluzione finale dell’intrigo. Le scene esterne sono appunto girate in Sudafrica, mentre per la prima volta sono state aperte a una telecamera le porte dell’edificio dell’Onu, situato nell’East Side di Manhattan; concesso a Pollack quello che era stato negato, sempre a Hitchcock, in “Intrigo internazionale”.
Il suo nome è Tsotsi (Tsotsi) – Il nuovo nome di David, il Tsotsi protagonista della storia, significa “bandito”, ed è questo il ruolo di questo diciannovenne capo di una banda di giovani criminali di Johannesburg. Rimasto orfano di madre, morta di Hiv, e cresciuto a suon di violenza e abusi da parte del padre, Tsotsi si lascia trasportare da una vita senza speranza, finché qualcosa lo riporta indietro, in un passato rimosso, ma non dimenticato. L’incontro che gli cambia la vita è con un neonato al quale sono state appena tolte le cure della madre, colpita da Tsotsi nel tentativo di rubarle l’auto. La corazza di violenza e indifferenza che il protagonista si è costruito sarà rimpiazzata dall’umanità, dal rispetto e dall’amore per questa piccola e indifesa creatura. Il film è tratto da un romanzo degli anni Sessanta di Athol Fugard, importante drammaturgo sudafricano; ha vinto l’Oscar nel 2006 come miglior film straniero.
Catch a fire – Sullo sfondo ancora una volta Apartheid. Ispirato a una storia vera, Patrick Chamuso, giovane operaio apolitico, vive tranquillo con la sua famiglia; finché a causa di alcuni attentati avvenuti nella raffineria di petrolio dove lavora, viene accusato di terrorismo, e nonostante la sua estraneità ai fatti, è costretto a dichiararsi colpevole per evitare che la moglie subisca ulteriori torture da parte della polizia. Una volta scarcerato comprende che la sua vita è irrimediabilmente cambiata e decide di entrare a far parte dell’African National Congress. Il film rende molto bene le condizioni sociali prima dell’abolizione dell’apartheid, concentrandosi anche sull’espropriazione delle più intime abitudini dei protagonisti. L’ultimo fotogramma del film mostra i due Chamuso, quello vero e quello che lo interpreta qui, che si divertono insieme giocando a calcio.
Il colore della libertà (Goodbye Bafana) – Siamo nel Sudafrica del 1968, all’afrikaner James Gregory viene affidato il ruolo di guardia carceraria addetta alla censura nel carcere speciale di Robben Island. Convinto sostenitore della causa dell’apartheid, l’incontro con Nelson Mandela, qui condannato all’ergastolo, gli farà vedere la cosa da un altro punto di vista e il suo atteggiamento nei confronti del popolo nero cambierà. Il racconto è basato sul libro di Gregory, “Nelson Mandela da nemico a fratello”, e dai dialoghi della moglie del protagonista con lo sceneggiatore. Nel titolo originale “bafana” significa “ragazzo” nella lingua Xhosa. Agli appassionati cinefili il film ricorderà “In my country” di John Boorman; entrambe le pellicole vedono come protagonista la carismatica figura del futuro primo presidente di colore del Sudafrica.
Forse Dio è malato – Vincitore del X Festival Internazionale dei Diritti Umani, questo docu-film, realizzato da Franco Brogi Taviani e tratto dall’omonimo libro di Walter Veltroni, racconta storie che si intrecciano ponendo l’accento sui problemi di questo popolo: fame, povertà, guerra, Aids, diaspora, emigrazione. Il film non si svolge solo in Sudafrica, ma in tutta la regione subsahariana: protagonisti sono uomini e soprattutto donne; ma anche bambini, che combattono una guerra senza neppure sapere perché o contro chi. Queste storie, tra la fiction e il documentario, si fondono insieme grazie anche alla bellissima colonna sonora, creata appositamente per questo film, eseguita dal senegalese Badara & The Pench Group e cantata della sudafricana Siyayuya Makuseni, una voce che intona perfettamente la tragedia e la speranza di questo popolo.
Invictus – “His people needed a leader. He gave them a champion”: questo é il sottotitolo che accompagna il film e che racchiude la vicenda narrata nel libro di John Carlin “Playing the Enemy: Nelson Mandela and the game that made a nation”. La regia di Clint Eastwood racconta la storia di un leader, Mandela appunto (Morgan Freeman) e del capitano della squadra sudafricana di rugby, François Pienaar (Matt Damon). Ma soprattutto narra di un popolo, che grazie alla tenacia dei protagonisti, acquista l’identità con un nuovo inno nazionale e una bandiera che ha tutti i colori dei suoi abitanti. Alla fine quello che rimane è la forza della gente e di Mandela, il leader che ha saputo riunire bianchi e neri nella lotta per una comune causa: la coppa del mondo del Campionato di Rugby del 1995, un piccolo passo per un più importante obiettivo: riconciliare i sudafricani dopo le ferite dell’apartheid.