Maschere in festa tra le calli di Venezia

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Le dame indossavano invece un altro ben noto modello di maschera : la moretta. Era una maschera ovale di velluto nero e veniva utilizzata principalmente dalle nobildonne che si recavano in visita ai conventi di monache. Importata dalla Francia, si diffuse a Venezia con rapidità, in quanto donava un certo fascino essendo ornata di veli, velette e cappellini a larghe falde. Era anche una maschera muta (cosa non sgradita agli uomini) poichè inizialmente la si indossava tenendola in bocca con l’ausilio di un piccolo perno. Durante il Carnevale, i veneziani si concedevano ogni tipo di trasgressioni e bauta emoretta erano utilizzate per mantenere l’anonimato e consentire qualsiasi gioco proibito. Il tabarro era anche spesso indossato per nascondere armi e a questo proposito vennero emanati non pochi decreti per impedire alle maschere di utilizzare il mantello per scopi illegali. Si racconta che anche gli ecclesiastici e le monache erano soliti indossare la bauta per coprire le proprie avventure amorose.
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Durante la Repubblica Serenissima, i festeggiamenti duravano quasi sei settimane, dal 26 dicembre fino a Martedì Grasso, quando si tollerava ogni forma di baldoria prima che le campane annunciassero l’inizio della Quaresima. Piazza San Marco e gli altri campi in tutta la città erano i palcoscenici ideali per organizzare festeggiamenti di ogni genere. La rappresentazione più spettacolare era il “volo dell’Angelo” adesso il “volo della Colombina”: originariamente consisteva nelle acrobazie di un uomo, legato alla vita con corde, che veniva fatto scendere dalla cella del campanile di San Marco fino alla loggia di Palazzo Ducale per offrire al doge mazzetti di fiori e componimenti poetici. Naturalmente non potevano mancare le cortigiane, il cui mito nacque a Venezia nel Cinquecento: in una città cosmopolita come questa, dove gli stranieri non mancavano, il fenomeno era non solo ben tollerato ma anche incentivato.
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Una tipica moda veneziana del Cinquecento era quella di esibire scollature ampie e generose, talmente generose che era abitudine ravvivarsi i capezzoli con un tocco di carminio. “Geishe dell’Occidente” venivano definite, modelle di grandi pittori, amate da sovrani e uomini di chiesa, non erano semplicemente prostitute di alto bordo, ma persone colte, intelligenti ed estremamente raffinate con abiti elegantissimi e chiome biondo rossastro, il famoso rosso Tiziano. In un tal contesto non poteva mancare il mezzo di trasporto che per milioni di turisti è diventato il simbolo stesso di Venezia: la gondola, unica imbarcazione al mondo lunga 11 metri dal peso di più di 600 chili a poter essere manovrata con facilità da una sola persona, con un solo remo. Asimmetrica, dato che il lato sinistro è più largo di quello destro di 24 centimetri, naviga inclinata su un fianco, con un fondo piatto che le consente di superare bassi fondali.
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Per la sua costruzione vengono impiegati ben otto diversi tipi di legno e sono ben 280 le parti che la compongono con due soli elementi in metallo: il fèro (ferro) a sei denti di prora, la cui forma dovrebbe rappresentare l’andamento del Canal Grande, mentre i sei denti sarebbero i sei sestieri in cui è divisa la città; e il risso (riccio) di poppa, che simboleggia l’isola della Giudecca. Dopo il divertimento sfrenato di carnevale era di rigore il periodo di digiuno e penitenza quaresimale, e a tal motivo i dolci tipici del Carnevale veneziano sono molto grassi, fritti nell’olio e soprattutto molto saporiti. Un’occasione in più per andare a Venezia e assaggiare quello che per secoli è stato ritenuto il dolce nazionale della Repubblica Serenissima: la frittella o frìtola veneziana, la quale veniva prodotta esclusivamente dai fritoleri, con uova, farina, zucchero, uvetta e pinoli, e poi fritta in olio, grasso di maiale o burro. Altri dolci tipici  del carnevale con origini molto antiche, probabilmente di epoca romana, sono i galani, detti anche chiacchiere, crostoli o lattughe. C’è una lieve differenza che li distingue: non tanto l’impasto, quanto il suo spessore la forma: i galani, tipico dolce lagunare, sono sottili, friabili e la loro forma ricorda dei nastri, mentre i crostoli, tipici della terraferma, sono grossi rettangoli con una pasta più spessa e meno friabile. 

Foto di Caroline Jacques e Sonia Anselmo

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