Soffia il vento forte e porta con sé echi di memorie antiche. L’aria è frizzante e non sembra di essere in un posto
disperso nel mezzo dell’oceano Pacifico. Piuttosto la scogliera, gli isolotti e l’erba ricordano l’Irlanda: per essere uguale mancano solo le pecore, qui sostituite da cavalli allo stato di semi libertà.
Soffia il vento e con sé sembrano arrivare gli spiriti degli uomini uccello, figure mitologiche, e invece sono solo i cinguettii dei piccoli uccellini.
Stare in contemplazione dell’oceano su questa landa sperduta fa venire in mente le leggende, il fascino e il dramma
di un antico popolo e la sua gara per conquistare il potere supremo. Orongo è forse l’unico posto di tutta Rapa Nui, o meglio nota come Isola di Pasqua, dove l’energia mistica attanaglia il visitatore: sarà perché la natura ha la predominanza su tutto e qui, più che altrove, pare dettare le sue regole.
Non c’è un Moai, le famose statue giganti, in questa punta estrema dell’isola, ma solo le rovine di un antico villaggio cerimoniale. Oggi è un sito archeologico con quello che rimane delle vecchie case di pietra, sorte sul pendio del vulcano Rano Kau, ormai spento e trasformato in un vasto lago pieno di giunchi dall’aspetto placido ma
misterioso.
Orongo, sospeso tra la profondità del mare e quella del cratere, era un luogo mistico, dove si venerava il culto di Tangata manu, metà uomo e metà uccello, come è visibile in uno dei petroglifi su un masso rimasto intatto all’incedere del tempo. Qui, fino a metà del XIX secolo, ogni primavera si riunivano gli uomini più forti delle tribù dell’isola e si sfidavano in una sorta di competizione sportiva per reclamare il potere: dovevano
affrontare varie prove fisiche, come tuffarsi in mare dallo strapiombo, raggiungere a nuoto il Motu Nui, il più lontano dei tre piccoli isolotti davanti alla scogliera, dove nidificava un tipo di sterna, prendere un uovo e portarlo a terra, incastonato in una specie di turbante sulla testa del candidato. Chi riusciva a tornare al villaggio e a consegnare al Gran Sacerdote l’uovo intatto avrebbe incarnato il mitico uomo-uccello fino alla prossima primavera e alla successiva gara. Non era certo facile o comoda la vita su Rapa Nui.
Unica al mondo, quest’isola triangolare lunga solo 25 chilometri, lontana da tutto, a 3500 chilometri dal Cile e a 2500 dalla Polinesia, scoperta la domenica di Pasqua del 1722 dagli europei nella persona del comandante olandese J. Roggeveen che la chiamò appunto isola di Pasqua, per poi essere colonizzata dagli spagnoli e visitata dal famoso James Cook, è attorniata da un fascino legato a doppio filo ai misteri della civiltà che l’abitò per prima.
Circondata dalle tante aspettative dei viaggiatori odierni e dall’interesse di archeologi, storici e antropologi, è un territorio strano: sembra diviso a metà, da una parte l’erboso e ventoso paesaggio che ricorda il Nord Europa, dall’altra la vegetazione, la bella spiaggia di Anakena, l’aria tropicale e l’artigianato locale evocano la Polinesia, anche perché le palme furono importate da Tahiti.
Ci si arriva con i grandi aerei che atterranno allo scalo di Mataveri, costruito dagli americani negli anni
Ottanta come base di partenza-atterraggio degli Shuttle. Oggi è un piccolo ed efficiente aeroporto dove si arriva da Santiago del Cile o da Papeete per poi alloggiare in uno dei tanti comodi e rustici hotel di Hanga Roa, l’unico paesino dell’isola.
Un paio di strade di negozi, ristoranti e caffè dall’aria informale, con i cani ben pasciuti che circolano
solitari alla ricerca di coccole, un cimitero in riva al mare, un porticciolo con annessa baia adatta ai surfisti.
Ma la sorpresa è proprio lì, girato l’angolo: l’incontro con il primo Moai, dritto e fiero all’imboccatura del porto. Poco più in là, sulla spiaggia a destra, sfilano sette Moai ben conservati e innalzati su un Ahu, la piattaforma cerimoniale che fungeva anche da sepolcri per gli antenati. Sono altari sacri, guardati a vista da solerti guardiani, e merita il dovuto rispetto ad un luogo religioso.
In tutta l’isola ce ne sono circa 250, i più imponenti sono quelli con i Moai allineati sopra, come il suggestivo Ahu Tongariki, forse il più fotografato con quindici statue. Normalmente sono tutti rivolti verso l’entroterra, perché dovevano proteggere il villaggio.
L’unica eccezione è Ahu Akivi, situato all’interno, con i moai che guardano verso il mare: dovrebbero essere in direzione delle isole Marchesi, da dove sono arrivati i primi abitanti di Rapa Nui nel 400 d.C, e ricorderebbero i sette re di quell’arcipelago, le statue sono alte quattro metri.
Ogni moai innalzato dai locali fino al 1500 è un caso a parte: ognuno ha fattezze diverse, ce ne sono di alcuni con un strano cappello rosso in testa che sembra più un’acconciatura tribale che altro (il pukao, così si chiama, è fatto con una scoria rossastra estratta dal cratere di Puna Pau, oggi visitabile), qualcuno ha ancora gli occhi disegnati di bianco dove un tempo c’era il corallo usato per sottolineare la pupilla, tanti sono eretti, ma molti
hanno subito danni, soprattutto tagli sul collo, la zona più fragile, sono per metà interrati o sono riversi o adagiati sul terreno.
Tutti fanno parte del Parco Nazionale che custodisce con rispetto e severità i siti archeologici e che
ha reso Rapa Nui Patrimonio Mondiale dell’Umanità per l’Unesco. L’isola si può girare anche in bicicletta o a cavallo e tra i punti da non perdere ci sono grotte con disegni rupestri, resti di villaggi con case che furono costruite girando la barca con cui i primi polinesiani arrivarono qui, il più grande Moai, chiamato ombelico di luce per la pietra con cui è stato scolpito, alto quasi dieci metri, e soprattutto la cava dove venivano prodotti.
Rano Raraku, soprannominato il vivaio, è un vulcano spento ed è l’altro luogo dove si respira la mitica energia spirituale: lungo i sentieri che salgono verso la cima, si trovano innumerevoli moai in diverse fasi di realizzazione, alcuni restaurati, altri abbandonati lì come furono riscoperti. Una sorta di “fabbrica” a cielo aperto, con panorami mozzafiato nei dintorni, che sembra riportare indietro nei secoli alla scoperta dell’antica civiltà di Rapa Nui.
Una storia che parla di guerre tra clan, quello delle Corte Orecchie e quello delle Lunghe Orecchie, e di cannibalismo, ma anche di abilità artistiche, di religione e mitologia. Da non perdere, poi, l’Ahu Nau Nau, che sorge nel luogo indicato come lo sbarco del primo re dell’isola, Hotu Matua, proveniente dalle Marchesi.
Si trova alle spalle della bella spiaggia di Anakena, l’unica accessibile (ce ne sono un altro paio, ma molto più piccole e difficili da raggiungere per i bagnanti, più adatte ai surfisti), con la sua sabbia bianca, l’acqua turchese e le palme. Uno sguardo lì e torna in mente il fatto di essere in un’isola del Pacifico, e non solo in un luogo perso nel passato remoto.
Info: www.visitcile.it
Testo e foto di Sonia Anselmo