Sacro e profano, spirituale e terreno, profondo e superficiale. Varanasi è una città di contrasti, che non lascia per nulla indifferenti, che scatena forti emozioni.
Luogo religioso per eccellenza per gli induisti, Varanasi, conosciuta anche come Benares,
è una città tra le più popolose dell’India, in Uttar Pradesh, oltre ad essere molto antica,
tra le dieci al mondo ininterrottamente abitate da più di 3500 anni. In simbiosi con lo
scorrere del Gange, sulle cui sponde sorge.
Soprattutto a Varanasi, sempre affollata di fedeli, si mischiano quotidianamente, in ogni attimo, vita e morte.
Vita come nei sorrisi dei bambini, nel caos tipico delle cittadine indiane, nei colori dei sari di chi fa le abluzioni, nel sole che sorge tingendo di rosa il pallido cielo.
Morte come i cadaveri bruciati sulle pire, nelle carcasse di vacca che solcano il fiume, nelle ceneri gettate per essere trasportate dalla corrente fino alla foce.
Varanasi ha una certa magia che seduce, nonostante tutto. Con i lumini che all’alba e al tramonto portano le offerte e i desideri sull’acqua, con i cinque chilometri della sponda sinistra (la destra, considerata infausta, è deserta) occupata da sontuosi palazzi, oltre 100 ghat e templi con le capre e le scimmie che vagano libere, con il Gange vasto e grigio come un mare sporco, solcato da piccole imbarcazioni: quelle dei visitatori che assistono muti al rituale mattutino dell’abluzione e del saluto al sole, e quelle dei venditori di cianfrusaglie e souvenir che si accostano, perché ogni occasione è buona per fare un affare. Anche davanti alle pire fumanti.
A Varanasi non c’è spazio per la tristezza, la morte in fondo è solo una transazione, un passo obbligato per rinascere in un’altra esistenza migliore della precedente.
Gettare le ceneri nel Gange è un segno di fede e di rispetto, un modo per essere più vicini alle divinità, primo tra tutti Shiva che dimorerebbe proprio qui, e consegnare nelle loro mani il bilancio della vita appena conclusa.
Secondo l’induismo Varanasi sulla riva del Gange è l’unico posto della terra in cui gli dei permettono agli uomini di sfuggire al samsara, cioè all’eterno ciclo di morte e rinascita, per questo milioni di fedeli nei secoli sono venuti a morire qui.
Inoltre ogni induista deve fare almeno una volta un pellegrinaggio a Varanasi e immergersi nel Sacro Gange, tutti desiderano che le proprie ceneri vengano disperse in questo luogo. Le pire per la cremazione funzionano sempre, al tramonto i brahmini assistono i fedeli ed eseguono un rito antico, affidare alle acque del Gange fiammelle di luce che rappresentano i sogni dei pellegrini.
I ghat, le ampie scalinate che scendono dalla strada fino alla riva, mettono in scena un teatro nel teatro: donne in sari che si preparano ad immergersi, scimmie che vagano, persone che fanno yoga o che pregano, bambini che giocano, venditori di composizioni votive di fiori, mendicanti, mucche. Di tutto e di più, in una celebrazione perpetua di vita e morte, che lascia sopraffatti dalle emozioni.
Una volta lasciato il Gange e i fangosi ghat alle spalle, Varanasi diventa un labirinto di vicoli e viuzze strette, dove si viene accompagnati da mucche e cani magri vaganti, da poveri e bisognosi, da negozi di tessuti pregiati (la città è un centro rinomato per la seta da secoli e per il cotone), tè e spezie. Sotto lo stretto controllo dall’alto delle immancabili scimmie.
Guardiane di Varanasi, luogo così fuori dal mondo contemporaneo, così tipicamente indiano.
Info www.incredibleindia.org
Foto di Sonia Anselmo, Pixabay
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