Azzurro, turchese, pervinca, indaco, fino al viola. Samarcanda inebria con tutte le sfumature del blu, fa sentire come dentro il cielo o il mare.
Le piastrelle che adornano madrase, moschee, cupole, minareti, sacrari, tombe reali e quant’altro sono l’attrazione immediata di questa città e dell’Uzbekistan, Paese dalle meraviglie architettoniche, naturali e umane, grazie una popolazione estremamente accogliente, calorosa e festosa con il visitatore straniero.
Samarcanda, poi, più di ogni altro luogo porta in sé un grande potere evocativo: la via della Seta e le carovane
di cammelli che per secoli hanno attraversato il deserto vicino e l’hanno guardata come un’oasi di relax dopo
le difficoltà del viaggio, scenari da mille e una notte e da antiche fiabe persiane, Alessandro Magno che la
conquistò nel 329 a.C, Gengis Khan che la distrusse, Marco Polo che la descrisse nel Milione. E poi ancora mercanti, avventurieri, astronomi, conquistatori. Fonte di ispirazione per scrittori come Egdar Allan Poe e
e Tiziano Terzani e persino per Roberto Vecchioni, anche se la sua canzone parla di morte.
Al contrario, Samarcanda è una città viva, che sembra aver passato impassibile il trascorre dei secoli, quasi 2700 anni dalla fondazione, assistendo all’avvicendarsi di dominatori, dai mongoli e turchi ai persiani, all’impero russo, fino ai sovietici, ma che sembra dovere tutta la sua straordinaria bellezza ad unico personaggio: Tamerlano.
Fu proprio Timur Barlas, o Timur i Lang, Temur lo zoppo, uno dei guerrieri più feroci della Storia, a
volere ricostruire la città, dopo che Gengis Khan la rase al suolo. La rifece più bella, più sontuosa, degna di
essere il centro di un impero vastissimo, dalla Siria e Turchia fino ai confini della Cina, coinvolgendo tutta l’Asia centrale e l’India.
Tra metà del Trecento e il Quattrocento, Samarcanda visse il suo Rinascimento. Grazie alla posizione geografica, sulle rotte commerciali, e al mecenatismo di Tamerlano divenne la città d’oro, anche se a vederla oggi sembra
di un solo colore, il blu dei lapislazzuli delle piastrelle che brillano al sole.
Perfetti decori di sconosciuti artigiani, intarsi di sfumature e disegni, una palette di colori che va dal chiaro acquamarina al viola cupo, dove però il re incontrastato è il Blu di Persia, nobile tinta che identificava i sovrani. Ammirando da vicino le preziose opere sembra di essere immersi nel blu dipinto di blu: si rimane quasi spiazzati da tanta bellezza, incantati e ammutoliti.
Il luogo di Samarcanda dove questa sensazione è più tangibile è Shah-i Zinda, un sacrario che racchiude le antiche tombe reali, che ospitano familiari e amici stretti di Tamerlano, mogli, figli, nipoti, sorelle, compagni d’armi.
Si trova proprio accanto all’attuale cimitero, sviluppatosi nei secoli proprio per donare ai defunti una sepoltura vicino alla famiglia di imperatori.
La salita è fatta dagli alti gradini che sembrano una caratteristica uzbeca e conduce ad una porta: passato l’arco, è un trionfo di blu, azzurro, viola, turchese, quasi a perdita d’occhio. E’ qui che la vocazione al blu di Samarcanda diventa più evidente. La vera meraviglia si rivela in questo insieme di tombe, mausolei e sepolcri, costruito sulla collina con le rovine della precedente città.
Ogni edificio sacro ha un dettaglio diverso che lo distingue, tutti sono un capolavoro di mosaici e piastrelle,
di disegni fiorati o astratti, intinti nel blu, fitto fitto. C’è anche la leggenda legata alla tomba del re vivente, ovvero Kusam ibn ‘Abbas, cugino di Maometto, che avrebbe portato l’Islam in questa zona: egli fu
decapitato per la sua fede, ma si rialzò, prese la testa sottobraccio e la portò al Pozzo Profondo che conduce al Giardino del Paradiso.
Sarebbe proprio sulla collina di Samarcanda, dove fu costruito un mausoleo, tra i più antichi della città, a lui dedicato. Ma il profeta non sarebbe affatto morto, starebbe solo dormendo: sopra la sua ipotetica tomba hanno edificato una moschea, dove oggi vanno i pellegrini a pregare, e che costituisce una delle venti attrazioni artistiche che compongono il complesso di Shah-i Zinda.
Il blu domina anche un’altra meraviglia della città, la grande piazza Registan: il nome significa luogo di sabbia, così come Samarcanda, così evocativo, vuol dire semplicemente fortezza di pietra.
Al centro del vasto spiazzo tre madrase, le scuole coraniche: qui vengono gli sposi a farsi fotografare e i visitatori a rimanere senza fiato in quella che sembra una scenografia bene orchestrata, mentre il tramonto riscalda la cima dei minareti e le cupole da turchese riflettono il rosa e l’arancio dell’astro calante.
Questo era il cuore della Samarcanda antica: la gente si radunava per ascoltare le proclamazioni reali o assistere alle esecuzioni pubbliche e per fare commerci. Ancora oggi, questa inclinazione alla compravendita è rimasta nei negozietti o bancarelle che si aprono all’interno dei cortili delle marase, tra ballatoi, cellette e cisterne, con le venditrici pronte a sferzare il contrattacco armate di borse ricamate, tovaglie e abiti in tessuti tradizionali.
Sul lato occidentale della piazza la madrasa Ulugh Beg è quella più antica: prende il nome dal famoso astronomo
nipote e successore di Tamerlano e in suo onore ospita mosaici che raffigurano temi legati alle scienze, che egli stesso insegnò qui agli studenti, e ha anche una moschea all’interno.
Sul lato opposto della Registan, la splendida facciata della madrasa Shir Darcon i suoi mosaici dedicati alla natura e agli animali, come le tigri raffigurate sul portale d’ingresso. Risale al Seicento, così come l’altra
madrasa, Tilla-Kari, al centro della piazza, rinomata per avere i rivestimenti d’oro e un cortile molto bello all’interno.
Il visitatore ha appena il tempo di abituarsi alla maestosità degli edifici, che una lunga e lastricata strada
piena di negozi e il mercato – bazar al coperto l’attende alle spalle della piazza per andare a ammirare la
moschea Bibi-Khanym, un trionfo di blu e turchese, la più grande dell’Asia.
Ad essa è legata una leggenda: Tamerlano, prima di partire per una spedizione militare, ordinò che durante la sua assenza venisse costruito un grande complesso religioso, con moschee, scuola coranica e ostello per i pellegrini, il tutto in onore della moglie preferita, una principessa mongola, Bibi Khamun. Ma l’architetto persiano incaricato della costruzione si innamorò della bella dama e minacciò di non finire in tempo se lei non gli avesse concesso un bacio. La signora era contraria, tra un tira e molla e l’altro, alla fine cedette e si fece baciare sulla guancia: purtroppo però il segno le rimase come una bruciatura e al ritorno di Tamerlano si coprì la faccia con un velo e ordinò a tutte le donne della città di fare lo stesso: nacque così il chador.
Purtroppo però, il conquistatore scoprì il volto della moglie che confessò la verità: la vendetta fu dura, fu uccisa e seppellita in una parte della moschea appena edificata, mentre l’architetto si nascose in cima al minareto e proprio mentre i soldati lo stavano per prendere per tagliagli la testa mise le ali e spiccò il volo verso la natia Persia. Leggenda a parte, la moschea è un’imponente edificio, con bel cortile interno e alcune zone restaurate da poco.
Tutta questa meraviglia diventa ancora più preziosa al cospetto di colui che l’ha voluta: Tamerlano. Gur-e Amir, ovvero la tomba del re, è un altro capolavoro di arte e architettura islamica in un’apoteosi di blu, con una grande cupola che svetta turchese nel cielo, ma l’interno è ancora più prezioso con i soffitti e le pareti in oro, blu e lilla, con decori fitti.
Contiene i sepolcri, abbastanza semplici nella maestosità del contesto, del conquistatore, di due figli,
dei nipoti Muhammad Sultan e Ulugh Beg, e del suo maestro spirituale Mir Said Baraka. Nell’aria aleggia la maledizione di Tamerlano: sul blocco di giada sopra la sua sepoltura ci sarebbe scritta la sibillina frase “Chiunque apra la mia tomba, scatenerà un invasore più terribile di me”. Voci di popolo ammettono che chi ha osato disturbare il suo sonno, come gli archeologi russi che fecero l’autenticazione dello scheletro, ha attirato
grandi calamità: pochi giorni dopo l’Unione Sovietica subì l’attacco nazista, e solo quando Tamerlano e il nipote Ulugh Beg tornarono nei loro letti eterni, le sorti della guerra cambiarono.
Non solo Tamerlano fece grande Samarcanda, anche suo nipote, l’illuminato sovrano e soprattutto astronomo
Ulugh Beg, continuò l’impresa. In particolare lui, famoso già nella sua epoca perfino in Europa come studioso delle stelle, costruì nel 1424 un immenso astrolabio: lavorando qui, creò alcune celebri tavole astronomiche, calcolò
la durata di un anno in 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 15 secondi, con un errore di 25 secondi rispetto all’attuale computo, e determinò l’inclinazione assiale della terra in maniera corretta. Oggi è visitabile quello che rimane del suo osservatorio, insieme ad un piccolo museo specifico.
Molto interessante è anche un altro museo, quello di Afrasiab, il nome originale della città distrutta da Gengis Khan. In un palazzo basso sulla collina dove si estendeva la prima Samarcanda, alcune sale ne raccontano la storia e si possono ammirare alcuni splendidi affreschi del VII secolo, ritrovati dagli archeologi. E anche qui, tra una processione per un rito con oche, elefanti, cavalli e cammelli e una scena che ritrae diplomatici in attesa di essere ricevuti dal sultano, emerge il blu, il vero colore della Samarcanda delle meraviglie.
Info: MEGATOUR S.R.L.
4, Via Della Motomeccanica – 00071 Pomezia (RM) Tel: 06/97849016
https://www.karavan-travel.com/it/
In collaborazione con MEGATOUR S.R.L.
Foto di Sonia Anselmo